Una delle ultime serie realizzate da Pilar Cossío ha come protagonista un paio di piedi – visti dall’alto verso il basso e saldamente appoggiati per terra – la cui presenza si impone, sovrapposta, ad altre immagini distinte: la struttura di cemento e ferro di una fabbrica o l’arco di acciaio di un ponte, dei sandali col tacco o delle parole invertite e quasi illeggibili e, in alcuni casi, un braccio disteso che coincide con una frangia di terra, e si direbbe che tutte queste immagini siano schiacciate e trattenute al suolo da questo paio di piedi perché non scappino via. I colori appaiono disposti in bande irregolari, mettendo in risalto un rosa carnoso acceso, a volte sono stesure che nascondono l’immagine. Mi attrae il paradosso di questa quiete dei piedi e l’immobile simmetria delle dita rispetto al carattere vagabondo che, secondo quanto da lei stessa confessato, caratterizza l’artista. Dice di essere alla ricerca di “un luogo” che sia allo stesso tempo ospitale ed estetico, che le permetta, credo, di mantenere la sua extraterritorialità esistenziale ed artistica. Un elenco delle città in cui ha vissuto, o in cui ancora vive, riunisce Barcellona dove compì i suoi studi universitari, Firenze dove compì gli studi artistici, Il Cairo dove preparò la tesi di dottorato e che è espressione, inoltre, di un’antica passione per la cultura araba, che si riassume nella cultura del deserto e del nomade che cammina su una terra apparentemente vuota, e poi Madrid, Londra, Roma, Torino, Padova e Parigi. In qualche modo, tutte queste città compaiono, nelle sue opere, in immagini estratte da fonti diverse o, altre volte, solamente nel titolo che dice in quale città esse furono realizzate, così Lago Auber I e II, Lido ecc. Cossío sceglie sia luoghi centrali, riconoscibili anche da un turista casuale, che punti specifici lontani da questo sguardo smarrito, i più numerosi dei quali, che io ricordi, appartengono a porti, ai punti di fuga della città e del continente e, anche, a ponti, congiunzioni tra un luogo e un altro distante e inaccessibile. Altre volte, coniuga vedute di due o tre città diverse, come frammenti caduti nel dimenticatoio, e mostra un luogo inesistente ma transitabile. Sono città (in)visibili? La sua volontà nomade non si dispiega solo negli aspetti geografici, ma estende le sue mappe di navigazione per nutrire il suo immaginario, sempre o quasi proveniente da fonti estranee alla sua “mano” – edifici, vulcani, frammenti di quadri o illustrazioni, fotogrammi, attrici del cinema muto, trame geometriche – e anche per definire il suo metodo per applicare, su questo “bagaglio”, la tecnica del collage, la sovrapposizione di un’immagine significante sopra un’altra – a differenza del collage avanguardista Pilar Cossío lascia poco margine alla casualità di un azzardo diverso da quello di mescolare i sentimenti e i ricordi personali, “sono immagini che si sono impossessate di me” dice – e di queste su una terza, e delle tre su una quarta … e così via finché la sua combinazione parla. La presenza della sua “mano” si avverte solo nella scrittura che appare in alcune opere. La sua è una “scrittura dipinta” o per dipingere, scrittura in alcune occasioni invertita, leonardesca, la maggior parte delle volte illeggibile.
Nel bestiario di Albrecht Dürer, vastissimo e ricco di specie diverse, l’artista tedesco incluse, secondo i calcoli degli storiografi verso il 1515 circa, un anno dopo aver terminato tre delle sue opere maestre incise su metallo, Il Cavaliere, La morte e il diavolo, San Gerolamo nella sua cella, e Melanconia I, la xilografia Il Rinoceronte.
Come era uso a quel tempo, l’immagine dell’animale proviene da immagini a loro volta disegnate e oggi sconosciute, e non dall’osservazione dal vivo dell’animale (occasione che si sarebbe potuta verificare nelle riproduzioni nelle altre stampe). Dürer non poté vedere l’esemplare, l’unico esistente allora in Europa, arrivato dall’Africa sulle coste del Portogallo, che cadde in acqua e affogò nel porto di Lisbona. Il re Manuel dovette sostiture allora il regalo che aveva destinato al giardino zoologico del Papa. Per disegnarlo, Dürer dovette immaginarlo così come poteva vederlo nell’anonimo, e per noi ignoto, disegno che gli servì da modello. Per questo e altre discrepanze, il rinoceronte rassomiglia più ad una macchina da guerra cinese che ad un animale. Il suo corpo, invisibile, appare ricoperto da spesse scaglie coriacee, tuttavia delicatamente decorate da una trama di minuscole cellule e alveoli. Anche Pilar Cossío è attratta da ciò che c’è di esotico negli animali non domestici, e, in alcune opere passate, per esempio, si è servita della gracile velocità della gazzella. Attualmente, l’immagine più ricorrente nelle sue opere e nelle installazioni in spazi fisici, è la silhouette di un rinoceronte che si ripete sulla carta o si estende sequenzialmente sulla parete della galleria. Assomiglia al rinoceronte düreriano, come provenienza, l’immagine dell’animale ripresa da altri, questa di Pilar Cossío, però, non vuole informare nessuno né sull’esistenza di questa “meraviglia”, né tantomeno pretende alcun altro carattere di verità se non quello della sua presenza. Da qui, forse, il suo vuoto interiore, la sua esistenza esclusiva come pura linea ritmica e pulsante o come contenitore di un campo di colore. Da entrambi gli estremi della sua identità possibile – linea timbrica o campo saturo – rimanda ad un altro degli aspetti fondamentali del lavoro dell’artista, la sua intima relazione con la musica.
Tra le opere che Andy Warhol realizzò negli anni Cinquanta mi hanno sempre attratto, in modo particolare, soprattutto i disegni e i bozzetti di scarpe da donna. Per alcuni di essi si documentò su riviste popolari e di moda dei felici anni Venti. Tutte hanno le caratteristiche tipiche del “pacchiano”, applicate in un modo perverso. Colori cremosi ed edulcorati, dal rosa pallido carminio virginale all’azzurro cielo chiaro dei primi giorni di primavera, con alcune audaci incursioni nel rosso estivo e floreale, un eccesso di ambizione nell’argentato brillante; lo stesso disegno e la decorazione rispondono a questo stesso criterio: fiorellini, farfalle, qualche stella, forse una striscia di tessuto al vento… Warhol impresse su alcuni di essi il suo particolare senso dello humour, parafrasando alcuni dei titoli famosi della storia della letteratura, A la recherche du Shoe perdu, o citando alcune delle sue celebri massime, to shoe or not to shoe.
A metà del decennio appartiene un suo inquietante disegno che rappresenta due piedi che si accarezzano accompagnati da uno sputo – decorato alla maniera del rinoceronte di Dürer – e da una Colt 45, che sembra avere il calcio argentato. Quasi trent’anni dopo, Warhol ritornò al motivo delle scarpe. Alcune di quelle opere sono cosparse con polvere di diamante che, secondo lui, aumentava ancor di più il già di per sé alto valore cromatico dell’opera. Sono scarpe di diamante.
Anche Pilar Cossío include scarpe da donna nelle sue installazioni e collage. Sono, sicuramente, una manifestazione insistente del nomadismo della sua proposta, di questo spirito di viaggiatore errante al quale, già prima, ho fatto riferimento. Non sono, tuttavia, né perversamente artificiose né pedanti… anche se, talvolta, includono allusioni grafiche, J. Sherin Shoeticien… e mai, mai risultano conturbanti, se non per le loro simbiotiche relazioni con le valve di certi molluschi e altri oggetti variopinti che non le legano, tuttavia, a nessun surrealismo superato. Sono, forse, emblema di qualcosa che Pilar indicava in una lettera diretta a colui che firma queste righe: “la mobilità è l’assoluta quiete (non so se il contrario), però sostiene un tempo che è il solo ad avere una tale estensione”.
Pilar Cossio è nata a Santander, in Spagna, nel 1950. Dal 1998 espone i suoi lavori soprattutto in Spagna, Italia ed Inghilterra. Vive a Parigi.
Mariano Navarro è critico d’arte. Vive e lavora a Madrid.